Milano, capitale economica e culturale d’Italia, città della moda e dell’innovazione, è oggi anche il simbolo di una crescente disuguaglianza sociale. Avere uno stipendio “normale”, in quella che un tempo era considerata la città delle opportunità, oggi significa spesso barcamenarsi tra affitti alle stelle, costi della vita insostenibili e zero margine di risparmio. In altre parole: significa essere poveri.
Il paradosso del ceto medio
Un tempo l’idea di un “buon lavoro” con uno stipendio nella media – intorno ai 1.500-2.000 euro netti al mese – bastava per vivere dignitosamente, magari pagare un affitto, uscire nei weekend, mettere qualcosa da parte e progettare un futuro. A Milano, oggi, quello stesso stipendio non basta più nemmeno per coprire le spese essenziali.
L’affitto di un bilocale in città supera facilmente i 1.200 euro al mese. Aggiungendo bollette, spesa, trasporti e qualche spesa imprevista, restano solo briciole, quando non si finisce in rosso. Il risultato è che sempre più persone con impieghi stabili – dipendenti pubblici, impiegati, insegnanti, persino giovani professionisti – vivono in uno stato di costante precarietà economica. Non si tratta più di marginalità sociale, ma di una nuova, allargata povertà di fatto.
I numeri che parlano chiaro
Secondo gli ultimi dati dell’ISTAT e dei centri studi sul costo della vita, Milano è oggi la città più cara d’Italia. Gli affitti sono aumentati del 30% negli ultimi 5 anni, il costo medio della spesa è più alto del 15% rispetto alla media nazionale e la richiesta di bonus statali e aiuti sociali è cresciuta anche tra persone con contratti a tempo indeterminato.
Uno studio del Comune di Milano ha rilevato che una famiglia con due stipendi regolari sotto i 3.500 euro netti mensili fatica a sostenere un tenore di vita considerato “normale” (mutuo o affitto, figli, mobilità, tempo libero, vacanze).
La nuova geografia sociale della città
Il fenomeno ha modificato anche la geografia urbana. I milanesi “normali” stanno abbandonando il centro e le zone più servite, spinti verso le periferie o addirittura fuori città, in comuni più economici ma con minori servizi. Il pendolarismo è in aumento e, con esso, lo stress e la perdita di qualità della vita.
Nel frattempo, interi quartieri centrali si stanno trasformando in vetrine per turisti, professionisti dell’hi-tech e investitori internazionali. Le case diventano B&B, gli affitti brevi sottraggono immobili al mercato residenziale e i prezzi si impennano ulteriormente.
Quando la normalità diventa un lusso
La vera emergenza, oggi, è che l’idea stessa di “vita normale” è diventata un privilegio. Non si parla solo di chi è disoccupato o vive in povertà estrema, ma di milioni di persone che lavorano tutti i giorni, pagano le tasse, contribuiscono alla società eppure non riescono a vivere serenamente.
C’è chi rinuncia ad avere figli, chi torna a vivere con i genitori, chi accetta condizioni lavorative sempre più instabili pur di rimanere “in città”. I giovani parlano di “futuro negato”, gli adulti di “sacrifici eterni”. La percezione diffusa è che, per chi non ha eredità o aiuti familiari, Milano sia diventata invivibile.
Cosa fare?
Serve un nuovo patto sociale. Servono politiche abitative concrete, un tetto agli affitti, investimenti pubblici per servizi accessibili, trasporti efficienti e sostegno alle famiglie e ai lavoratori. Ma serve anche una riflessione collettiva su quale città vogliamo: una metropoli vetrina per pochi o una capitale inclusiva in cui tutti possano aspirare a una vita dignitosa?
Perché se lo stipendio “normale” non basta più, allora il problema non è lo stipendio. È il sistema che abbiamo costruito attorno a esso. E a Milano, oggi, è evidente come non mai.
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